Questioni di (est)etica: il restauro cinematografico oggi

Origini, cause e processi delle pellicole in restauro: cosa succede quando una pellicola torna a rivivere?

di Silvia Ferrannini  –  Se qualcuno desse una manata di vernice rossa su un’opera del Canova si griderebbe all’orrore, all’onta e alla mancanza di rispetto dei giovani d’oggi (quello non stona mai). Non molto spesso si pensa che il discorso vale anche per arti meno plastiche e tangibili. Ebbene: delle immagini cinematografiche, ad esempio, cosa ne è quando vengono toccate, più o meno legittimamente, più o meno adeguatamente? Qui si entra in un anfratto del mondo audiovisivo molto invitante ma tuttavia poco scandagliato: il restauro di pellicole cinematografiche.

Una delle stanze di conservazione del Louis B. Mayer Conservation Center (AP Photo/David Duprey)
Una delle stanze di conservazione del Louis B. Mayer Conservation Center (AP Photo/David Duprey)

I restauri cinematografici sono sostanzialmente ipotesi. Si prova a immaginare cosa avesse in mente il regista quando creava quel film e cosa avessero visto gli spettatori dell’epoca, sulla scorta di una spinta storicistica che mira a riassestare ciò che il tempo ha necessariamente eroso. E’ un po’ la faccia contemporanea del classicismo: si recupera un originale e laddove c’è polvere si scrolla, dove ci son lacune si colma al meglio delle proprie possibilità, quando i guasti e i difetti son troppi si aggiusta e rimette in ordine.

Serve certamente un laboratorio, ma attenzione a figurarvi nella mente botteghine di archeologi gobbi e sospiranti di nostalgia intenti a spulciare kilometri di nastri. Immagini, tinte e movimenti perduti passano al vaglio di forbici, cotton fioc, macchinari sofisticatissimi per pulizia, e tanti tanti tanti computer. Qui il gioco dello scavo e della ricreazione conferisce premi speciali: la resurrezione e la garanzia dell’immortalità delle pellicole.

La formula quindi sarebbe: restaurare, quindi congetturare, quindi rimettere in sesto, quindi conservare. (Una quasi ovvietà da dover tuttavia puntualizzare: il restauro viene operato su una pellicola già conservata, che cioè ha già una copia di conservazione su cui intervenire: si mettessero le mani sulla pellicola originaria si rischiano danni belli grossi e, soprattutto, irreversibili). Ma manca un membro fondamentale: la riprogettazione. Ebbene sì: questo è non solo lavoro da amatori ma anche da ricercatori dell’innovazione, perché un “palinsesto filmico” deve essere comunque recepito e criticato da un presente che esige di essere intrattenuto. Servono quindi mani agili, ma anche occhi vispi; e più che mai dev’essere chiara la volontà di architettare un’esperienza intellettuale inedita a partire da un qualcosa di non contemporaneo.

Pellicola

Identifichiamo il qualcosa: il film non è solo una bella stringa d’immagini che gira in una piccola cabina alle nostre spalle. È innanzitutto e soprattutto uno spettacolo, con tutti i suoi apparati. Le immagini si muovono in un determinato modo perché evidentemente quel dispositivo di proiezione funziona così; la sala cinematografica ha le sue peculiarità (dimensione, collocazione dei divanetti, illuminazione…); il pubblico ha sempre mille e mille volti, menti e cuori diversi. In nome anche della indubbia parentela con la musica e il teatro, l’opera cinematografica è un dato performativo a 360° e non solo un supporto duplicabile e riproponibile ovunque e comunque. Quando poi si tratta di un classico, al pubblico probabilmente non interessa tanto constatare quanto sia stato tirato a lucido il cimelio ma presta piuttosto attenzione a come s’inserisce in un contesto tecnologico e culturale rinnovato. In una parola: cosa significa in quel momento quel film. Ed esattamente dall’altra parte si ha che l’oggetto “film delle origini” non è solo la pellicola: esiste anche fuori dallo schermo ed è anche tutto l’insieme di apparati di spettacolarizzazione in cui esso si trovava inserito e accordato. Questo, in fin dei conti, è il modo in cui si articola tutta la storia del cinema.

Che dunque ogni proiezione di uno specifico film sia solo sorella, e non gemella della precedente? Certo che sì, e il fascino sta proprio in questo: siano considerevoli o infime, necessarie o superflue, le varianti (interne ed esterne) vivificano una pellicola e non la rendono mai perfettamente uguale a se stessa. Quindi, un conto è dire duplicazione, altro è dire replica.

«Parlare di filologia del film è riduttivo: ma allora cosa fa il restauratore? Ammoderna, aggiusta, manipola? Un po’ tutti e tre: a metà strada fra documentarista, archeologo ed esteta»

Se oggi quindi si è disposti a fare la fila per rivedere per la ottantacinquesima volta Otto e mezzo è perché il restauro non è solo pellicolare ma culturale e poetico, e Fellini non ha mai esaurito il suo messaggio.E allora la battuta ”Capitano, non le piacciono le illusioni?”, “No, io sono un realista” de La grand illusion di Renoir arriva limpidissima e ben scandita alle orecchie, ricordandoci che l’incubo della Guerra non è finito da troppo tempo; le proiezioni di ombre, i controluce, i ralenti e le accelerazioni del Nosferatu e del Faust di Murnau vengono colti espressamente come correlativi oggettivi tra atmosfera e personaggio (ed eccolo lì, il manifesto dell’Espressionismo); Anna Magnani corre a perdifiato su via Montecuccoli dietro al suo Francesco in Roma città aperta pare venire verso di noi più vera che mai, inducendo a una pietà sempre percepibile, sempre ri-testualizzabile.

Parlare di filologia del film è riduttivo: ma allora cosa fa il restauratore? Ammoderna, aggiusta, manipola? Un po’ tutti e tre. A metà strada fra documentarista, archeologo ed esteta, le grandi preoccupazioni di questo artigiano hi-tech non sono solo di colmare lacune ma pensare alla fruibilità del film. Un esempio per tutti: Enno Patalas si barcamenerà in ogni modo per riprodurre la prima versione berlinese di Metropolis, film fiaccato da non pochi tagli e censure. Moroder entra in un’altra dimensione con la musica e la manipolazione delle immagini totalmente nuova, creando qualcosa che forse forse a Lang non sarebbe dispiaciuto.

Allora cos’è più legittimo? Cercare di seguire alla lettera “l’ultima volontà dell’autore” o cercare di ripensarlo in termini più attuali, a volte anche a discapito della sua origine? Vince l’estetica o l’etica? Tra Patalas e Moroder, chi aveva ragione?

Probabilmente nessuno dei due. Entrambe le esigenze sono comprensibili e, verrebbe da dire, auspicabili. Ogni soluzione è compromesso, e a seconda del prodotto filmico che si ha fra le mani si agirà in modo diverso. Nell’arte “antica” poi, sempre in bilico fra rispetto della volontà dell’autore e desiderio di reinventarlo, è bene trattare con i guanti. La Cineteca di Bologna, laboratorio infaticabile e “casa di cura” di tanti tesori filmici, è un’istituzione all’avanguardia esattamente per questo: là dentro, a partire dagli anni ’90 si è iniziato a pensare a una vera e propria teoria del restauro per curare la memoria cinematografica al meglio. E quel che più conta è che gli spettatori sanno bene che stanno assistendo a una ricostruzione del film e, in una certa misura, a ciò che non è mai stato visto prima nemmeno dal pubblico dell’epoca. Non un “falso storico”, bensì una nuova totalizzante esperienza.

Ma al di là della Cineteca il tassello mancante del momento “visione film restaurato” è proprio questo: la consapevolezza di chi guarda. Forse troppo spesso ci si dimentica che lo spettatore medio non ha idea del lavoro che sta alle spalle della risistemazione di una pellicola: informarlo in merito sicuramente porterebbe a una riflessione e dunque a una visione diversa del film. Dei bei titoli testa dove si racconta la seconda vita di quella pellicola, un “foglio informativo”, una presentazione orale prima dell’inizio dello spettacolo… Potrebbe parere un poco scolastico, ma in una certa misura è proprio di didattica della visione ciò di cui si parla.

Oggi questo non è così facile come sembra. Vuoi per la dimestichezza che l’odierna tecnica ci ha fatto acquisire, vuoi per i fanciulleschi amori retrò o malcelato conservatorismo da dotti, quel che ha un sapore datato ma non ammuffito piace molto e vende altrettanto. Da un certo momento in avanti il restauro della pellicola ha prodotto sostanzialmente ristampe e attraverso la Tv prima, i DVD e Internet poi invadono un cosmo dello spettacolo sempre più dotato, sempre più malleabile allo schermo e alla mente del pubblico. Gli archivi delle majors americane e in generale delle case detentrici dei diritti di proprietà e sfruttamento dei materiali dominano nella politica economica cinematografica: e si crea una relazione strettissima tra trasformazione tecnologica dei media di trasmissione, gli archivi e i cinefili incalliti. Da qui il collezionismo, le rassegne, i poster di Sergio Leone appesi in camera, i film dei Monty Phyton in salotto.

Ecco. Quindi, alla fine, ci troveremmo di fronte all’ennesima industrializzazione della memoria e dell’arte. Ma non bisognerebbe avere troppa fiducia nell’idea che questo sia facilmente evitabile. La schiacciante supremazia del mercato del cinema rispetto a quello di tante altri arti è obiettiva perché i film creano immaginari, ammaliano la percezione e raccontano. Raccontano sempre, anche in mezzo ai tempi morti, alle digressioni, a linguaggi lontani dal nostro. E la storia non è comunque ancora finita…