Falena

OUTsiders webzine si occupa di letteratura e incoraggia l’editoria indipendente: nella rubrica INEDITO seleziona racconti brevi e poesie. 

Nota dell’autore:

Mi chiamo Filippo Santin, e sono l’autore di “Falena”, il racconto che seguirà. Sarebbe giusto introdurlo in maniera adeguata, con un paio di frasi che sappiano “parafrasarne” i contenuti, i simboli, tutto ciò che di nascosto vi è tra le parole. Eppure, ahimè, non lo farò; perché portare il profondo della vita umana troppo in superficie, a volte, mi risulta osceno. Forse, per introdurre questo racconto, basta spiegare cos’è per me la falena che dà il titolo: un animale che si muove nel buio, e che spesso si fa attrarre dalla luce artificiale degli uomini per poi, magari, venire catturata o colpita dagli stessi (nonostante sia innocua). Mi è capitato di leggere che, fra l’altro, le falene si nutrono anche del liquido della frutta in decomposizione. E che inoltre i loro occhi sono così scuri per impedire ai predatori di scovarle. Ecco: perdonate quella che può sembrare pigrizia, noncuranza; ma per introdurre il mio racconto, forse, basta soltanto questo.

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_ di Filippo Santin

Falena

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Ce ne stavamo seduti nella mia vecchia Opel, fermi nel parcheggio di un motel, ipnotizzati dall’insegna al neon sul tetto che cambiava colore come luci di Natale. Era una notte di settembre; le scuole avrebbero riaperto di lì a pochi giorni. Non avevo nulla di cui preoccuparmi eppure, nel profondo, ero teso. Lo stomaco si contorceva con la stessa lentezza con cui l’insegna al neon sfumava da un colore all’altro. I giorni di vacanza scorrevano sempre troppo rapidi, ed io lo ricordavo ancora.

– Fra quattro ore mi tocca svegliarmi… – biascicò Antonio, dopo aver dato un’occhiata al Casio sul suo polso.

– Sei già sveglio… – risposi io, mentre tenevo gli occhi fissi sull’insegna al neon, affamato di luce come una falena.

Antonio iniziò ad accarezzare il cinturino di plastica azzurro dell’orologio.

– Era un modo di dire… – borbottò.

Stavamo fumando marijuana – “varietà White Widow, piena di principi attivi”, mi aveva spiegato mio cugino mentre me la vendeva. Non facevamo altro da tutta la sera. Oramai i contorni dei nostri pensieri erano confusi quanto quelli di una luce senza contenitore.

Adesso Antonio cercava di scandire bene le sue parole: “Domattina devo fare da autista a un’altra di quelle puttanelle… Prega che non mi addormenti al volante… Prega che l’azienda non mi faccia il test antidroga…”.

Blaterò per un minuto intero, ma tutto quel che disse entrò nelle mie orecchie simile ad un ronzio. Non finsi nemmeno di capire.

Per un attimo distolsi lo sguardo dall’insegna al neon, ed osservai i miei occhi riflessi nello specchietto retrovisore. Erano densi e scuri come il mare di notte; così grandi da occupare metà del viso.

Forse mi stavo davvero trasformando in una falena.

Succhiai il fumo come nettare da un fiore e mi bruciai la gola.

Poi, tornando a fissare l’insegna luminosa che passava delicatamente dal rosa al verde, sibilai: “Vorrei essere uno di quegli psicologi che si vedono in televisione… Quelli che spiegano alle madri perché i ragazzini si drogano… Sembrano sempre così… Così, ecco… Sicuri di tutto quel che dicono…”.

Antonio mi sfilò la canna dalle dita, ma non si mise subito a fumare. Prima di farlo rimirò un’altra volta il cinturino dell’orologio legato al polso.

Percepivo un silenzio inquietante.

D’istinto volsi anch’io lo sguardo verso l’orologio. Riuscivo ancora ad intravedere le luci fluorescenti impresse sulla retina. Il cinturino aveva un colore diverso: più tenue; silenzioso; non si alternava di continuo ad un altro – insomma, era destinato a rimanere.

Notai pure che era tutto rosicchiato lungo i bordi.

Allungai il mignolo per indicarlo; l’unghia entrò quasi perfettamente in uno di quei buchetti.

– Hai i topi in casa? – domandai con tono sarcastico.

Antonio sorrise; ma la marijuana non c’entrava nulla. Il suo era un sorriso dolce, sincero, che contrastava il mio intimo desiderio di fare male.

– È stato Manuel – rispose.

Di colpo sentii il cervello affogare in un bagno di nebbia. Avevo la testa pesante, la gola secca. Mi sforzai di tenere le palpebre alzate per comunicare con lo sguardo.

Antonio continuava a sorridere. Guardò a fondo in quegli spiragli rosso sangue che erano i miei occhi, e disse: “Mio figlio. A novembre compie due anni. Te lo ricordi?”.

Sì, ricordavo. Ma preferivo dimenticare. Stranamente mi sembrava la cosa più semplice.

Girai di nuovo la testa in cerca di luce artificiale, ma non trovai più nulla. Ora l’insegna del motel era spenta.

Agitato, cominciai a muovere gli occhi da tutte le parti, prima di fermarmi in un punto dell’edificio dove si scorgeva una fila di luci pallide e fioche. Si trovavano poco sopra la porta di ingresso.

Da quella stessa porta uscì un uomo fottutamente grasso. Strascicava le sue ciabatte, e non si preoccupava di svegliare chi stava dormendo. Aveva una testa enorme, pelata.

– Secondo te quello laggiù è il padrone della baracca? – domandai ad Antonio.

– Può darsi – rispose lui sovrappensiero.

Credevo che avvicinando lo sguardo sarei stato capace di scoprire la verità in un dettaglio. Sporsi il collo in avanti, uscendo dalla barriera di fumo; ma non mi concentrai su quell’uomo che stava in linea d’aria. Fu naturale sollevare gli occhi, e ammirare il cielo: sereno, senza una nuvola, mentre passava dal nero al blu. Era quasi l’alba.

Soltanto il cessare del rumore di passi mi convinse a guardare di nuovo avanti.

Lo sconosciuto si era accorto di noi e ci stava spiando. Immobile, sotto a quella fila di gelide lampadine, la sua testa luccicava piano. Era rotonda quanto la sua pancia, coperta appena da una canottiera che puzzava di certo.

– Povero stronzo… – gli sussurrai, sfidandolo con uno sguardo che a malapena poteva distinguere nel buio. – Chissà se ci credi sul serio a questa sceneggiata… Televisione satellitare, colazione inclusa… Potresti promettere pure…

Non mi veniva in mente nulla.

– Darò fuoco al tuo bel porcile…

Antonio infilò la canna tra le mie dita senza che me ne accorgessi.

– Non mi va più – disse.

C’era qualcosa di diverso nella sua voce: profonda e pulita, somigliava a quella di mio nonno.

– Conosci una cantante di nome Bastard Fox? – mi domandò. – È italiana, ma canta in spagnolo. Avrà sui vent’anni. Mi hanno mostrato un video in cui è vestita con un bikini mimetico e guida un carro armato…

Io scossi la testa.

– Pare che in Sud America vada forte. Devo accompagnarla all’aeroporto, domani…

Non capivo a quale giorno si riferisse. Oggi era già domani?

Per qualche strana ragione volevo che Antonio chiamasse quella cantante “puttanella” un’altra volta. Ma non lo fece. Si limitò a sbirciare il mio polso in silenzio.

– La canna si è spenta – mi avvertì.

Non era la prima volta che capitava. Qualcosa, però, mi fece sentire stupido. Abbassai il finestrino e la lanciai fuori, come per gettare via la mia vergogna.

Lo sconosciuto all’orizzonte rientrò nel motel ignorandomi, mentre Antonio mi domandava di riportarlo a casa.

Durante il tragitto non proferimmo parola. Avrei potuto coprire il silenzio accendendo l’autoradio, ma me ne scordai. Un paio di volte udimmo gli uccelli cantare.

Quando arrivammo a casa sua moglie Rita lo stava aspettando sveglia. Si poteva intuire dalla luce accesa in cucina.

In quel momento desideravo così tanto che lei uscisse sbraitando: volevo vederla correre da Antonio e mettersi a picchiarlo, magari con un mattarello, come nei cartoni animati. L’importante era che lo ferisse.

– Mi sa che stavolta ti farà il culo. Non puoi più permetterti di tirare l’alba come un ragazzino… – dissi.

Restavo in attesa che i miei desideri fossero esauditi.

Nel frattempo Antonio accese l’autoradio. Il suo gesto mi lasciò di stucco. Non capivo perché lo avesse fatto, dato che era sul punto di andarsene.

Attraverso le casse risuonò gracchiando un pezzo techno.

– Si sarà svegliata perché Manuel piangeva – disse lui, spalancando la portiera e scendendo dall’auto.

Mi salutò con un cenno della mano quand’era già davanti alla porta di casa. Il cielo era abbastanza chiaro perché scorgessi l’azzurro del suo orologio.

La techno non aveva voce e non cambiava mai ritmo. I battiti metallici mi colpivano la fronte come insetti sul parabrezza.

Abbassai il volume, giusto per avere la concentrazione necessaria ad alzare gli occhi e perdermi nel cielo.

Avrei voluto trasformarmi in una falena prima che sorgesse il sole.

Avrei voluto scoprire dove dormono le farfalle notturne quando la luce è troppo forte.

Avrei voluto così tante cose.

Ma alla fine, riaccendendo il motore e lasciandomi guidare dalla strada deserta, pregai soltanto che bastasse partire.

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