L’intimo e l’accademico di Andrea Gastaldi: quando le opere incontrano i giorni

Due mostre, due approcci complementari ma differenti per intenti e selezione, sono l’esposizione presso il Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto e quella presso la Pinacoteca dell’Accademia Albertina.

di Federica Giallombardo  –  Entrambe situate nel cuore di Torino, dove la città si inchina tra la Gran Madre e Palazzo Reale ed entrambe aperte al pubblico dal 15 giugno al 4 settembre 2016, le due esposizioni sono curate da Giovanni Cordero e fanno parte di un ciclo di mostre intitolato “I Maestri dell’Accademia Albertina”, dedicato alle personalità più significative dell’Accademia, che costituirà nei prossimi mesi le sale della Pinacoteca e del Museo Accorsi-Ometto.

Partendo dalla collezione del Museo Accorsi-Ometto, si giustifica pienamente il titolo della sezione: “Un sodalizio d’amore”. Non tanto – e sembrerebbe questo il pretesto – per sottolineare il rapporto affettivo e stilistico tra Gastaldi e la moglie Léonie Lescuyer, pittrice animalista francese tra le più note del XIX secolo (esposta nell’ultima sala del percorso; vera essenza ne è la Maternità); ma quanto per mostrare come un pittore impegnato in grandi soggetti storici come Gastaldi fosse capace di concedere scene romantiche che fluttuano tra Hayez e i maestri del Cinquecento.

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Si apre così lo sguardo al paesaggio quotidiano, inarrivabile nella sua sfaccettata presenza domenicale; alla non necessariamente nitida visione del particolare (ad esempio Tre teste, del 1851; o Studio di guerriero medievale inginocchiato, del 1867) e si nega, invece, in scenari didascalici e colori illustrativi, come in Gli amori celebri (1884); non a caso, un encausto su tela, tecnica antica ed elegantissima. Accanto ai diversi studi di quest’opera, risponde il colore brullo e instabile di Studio di Caino e suo figlio (innocenza e rimorso) (1869), che proietta il sublime contrasto tra terreno e spirituale, anima e materia – così caro ai romantici; si pensi al Cain di Byron.

Ultimo appunto, un’attenzione pacata, ancorata spesso alla meticolosità ottocentesca, per le figure femminili: il mutamento di gesto in Studio di figura femminile seduta (1857 ca.); il velo profano della Cleopatra (1884); il fiore uggioso portato allo sguardo saffico in Studio per la Primavera (1888); la dolcezza negata e derisa negli occhi della giovane tra i balordi in Si fa giorno in un’anima (1872).

Di altro avviso è la sezione ospitata dall’Accademia Albertina, “Un artista internazionale”: qui l’attenzione è incentrata sulla cultura stilistica e l’esperienza del docente Gastaldi, grazie alle quali è nata la fucina di talenti della scena artistica sabauda a cavallo tra Otto e Novecento.

Le dodici sale raccontano il legame tra Gastaldi e i pittori accolti nella permanente dell’Accademia, in eterna riverenza nei confronti delle grandi tele di ispirazione storico-letteraria e religiosa del capostipite: dal celeberrimo Pietro Micca nel punto di dar fuoco alla mina volge a Dio e alla Patria i suoi ultimi pensieri (1858), agli studi per Emanuele Filiberto infante (1884) a quelli per il dipinto Bonifacio VIII (1877), all’Innominato (1860), colto in una posa intellettuale e pensosa.

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Opere di artisti come Maartin Heemskerck, Giuseppe Bogliani, Filippo Lippi, Bartolomeo Schedoni (commuovente la sua Sacra Famiglia, 1617-1620), Francesco Pierotti (che spalanca la visuale della sala con il suo Aiace fulminato del 1847), Carlo Ceresa, Gregorio De Ferrari, Domenico Piola hanno così modo di corrispondersi attraverso le epoche e gli stili: legami tra l’immanente e il superfluo, tra ciò che manifesta il Bello e ciò che lo cela trattenendolole opere e i giorni, appunto.

“Gastaldi non risparmia i contenuti pittorici sentimentali, raccontandosi nell’intimità dei topoi romantici”

Rappresentanti di entrambe le esposizioni (anche se pare riduttivo esaurire qui lo scandaglio delle possibilità), trama e ordito dove tutto si tiene, sono La perdita del primo amore (1853), lugubre ideale romantico di amore e morte nel momento tragico dell’abbandono dell’amata, con la figura morente incorniciata da una folta luce contrapposta alla penombra dell’amante, spento nella lascivia delle sue preoccupazioni; il Cristo nell’orto (1870), dove la sofferenza di Cristo è inginocchiata nell’acuto abbandono dell’ambiente desertico che rappresenta la connessione tra natura e divino, capace di interpretare la desolazione pietrosa e cieca; e Saffo (1872), patetica nell’inganno della sua stessa poesia, imperterrita, impossessata dall’affanno del mare. È soprattutto in queste tre opere che Gastaldi non risparmia i contenuti pittorici sentimentali, raccontandosi nell’intimità dei topoi romantici.

Nei limiti di un contenuto che alle volte pare non rispecchiarci più, si ritrova nelle due esposizioni un collegamento duplice: con ciò che ci appartiene per cultura, ovvero la vanità della pittura sabauda, dalla metodica tipicamente piemontese (si consiglia la visita ai torinesi più austeri); e con ciò che ci sospinge nell’intimo, ovvero la poesia sciolta, il sottile confine tra il sentimento melenso e l’esasperazione di esso (si sconsiglia la visita agli scettici del sublime).