6 capolavori di Ozu restaurati dalla Tuker Film

Free-form su un maestro del cinema orientale, omaggiato per due volte di fila dalla città di Torino.

di Jacopo Lanotte  –  Il Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale è un paese difficile. Ozu, cattura, seguendo trame che si sviluppano in variazioni minime all’interno della sua filmografia, quella realtà sociale dando un quadro nitido, riconoscibile, fatto di oggetti e consuetudini. Storie di vicende famigliari di recupero e scontro tra generazioni diverse che spesso non riescono più a comunicare. Ogni pellicola è un piccolo documento magistralmente ripreso e sempre toccato (si faccia eccezione forse per “Il gusto del Saké”, ultimo e malinconico film) da una sottile ironia.

Il ciclo di proiezioni al Cinema Massimo dà occasione al professore di tecnica cinematografica ed esperto di cinema estremo-orientale Dario Tomasi di presentare la traduzione italiana di “Ozu Yasujiro. Scritti sul cinema” – con la presenza di Franco Picollo (co-curatore del volume con Hiromi Yagi). Come da molti anni ormai è la Sala 3 ad offrire spazio alle proiezioni di film restaurati in lingua originale. Così accade anche per le sei pellicole di Ozu che presentano in sintesi la parabola del cineasta giapponese.

Da “Tarda Primavera” (Banshung) al “Gusto del Sakè” (Sanma no aji). 1949-1962. Gli anni in cui il Giappone cercava di risollevarsi di fronte all’occidentalizzazione, alla distruzione atomica. Un periodo difficile, di cambiamento e ricostruzione. Scelte con cura all’interno del vasto repertorio oziano, le sei trame scorrono piacevoli seppur l’epoca inscenata sia tutt’altro che serena. Anzi. Il Giappone del secondo dopoguerra appare la nazione più devastata, colpita nel profondo. L’unica nella storia ad aver subito un duplice attacco atomico.

Ma i soggetti di Ozu sembrano vivere in una favola silenziosa, sospesa. Non c’è violenza, né fisica, né psicologica. Gli scontri, se avvengono, sono sempre filtrati da un equilibrio dei rapporti umani. Insito, d’altronde, nella società giapponese tradizionale. Sarà successivamente un altro cinema – quello che poi si legherà ai manga, ai film sulla yakuza e ai thriller psicologici – a scuotere con veemenza il mondo filmico nipponico.

Ozu vive e descrive altro, un Giappone meno noto. Soprattutto ai più giovani. E il pubblico che trovo al mio fianco durante le proiezioni, lo dimostra. Il periodo, dal primo al 19 luglio, in cui solitamente le scuole chiudono i battenti e i ragazzi torinesi sbarcano in riviera in cerca di un po’ di leggerezza e divertimento, non aiuta. Tuttavia sicuramente la scelta di presentare il Giappone sotto i movimenti di macchina oziani, non ha certo attirato né le grandi masse (ma questo c’era da aspettarselo) né il solito pubblico appassionato di cinema – finalmente – in lingua originale. D’altro canto una rassegna dedicata al suo cinema era già stata promossa l’anno passato, nello stesso periodo, dal Cinema Romano. Per l’occasione i titoli erano all’incirca i medesimi proposti al Massimo, con qualche piccola variazione. E il riscontro fu grossomodo lo stesso (andai a vedere per l’occasione “Viaggio a Tokyo”, Tokyo Monogatari. Presente anche nella scelta di quest’anno).

vlcsnap-2012-11-20-22h27m33s250

*

Ciononostante la curiosità spinge i temerari. Mi ritrovo così per due sere in sala 3. L’atmosfera è spettrale. Siamo circa una decina di persone, per lo più di età medio-alta. Si accende il proiettore e comincia la sigla, che, secondo l’ottica di una restaurazione fedelissima all’originale, si ripete sempre uguale nella musica e nell’estetica. Assorto e assorbito da quel cinema d’altro tempo che affascinò moltissimo un regista del calibro internazionale come Wim Wenders (suo è il documentario “Tokyo-ga” dedicato a Ozu, girato negli anni Ottanta durante una pausa dal suo capolavoro dell’85’: “Paris, Texas”), assisto all’ultima sua invenzione già nominata, “Il Gusto del Sakè” (1962) e a “Buongiorno”(Ohayo) (1959). Due vicende che appaiono tra loro e in rapporto alle altre pellicole scelte, distinte e ben distinguibili, pur rispettando l’estetica ormai consolidata (i due film sono gli ultimi della produzione oziana) del cineasta nipponico.

La prima ritorna su un tema ampiamente affrontato da Ozu già in passato a partire da “Tarda Primavera” e proseguito in “Tardo autunno” (entrambi presenti nelle sei pellicole selezionate dalla Tuker Film al Cinema Massimo): il matrimonio combinato tra famiglie della Tokyo medio-borghese d’allora. La variante rispetto agli episodi precedenti (già “Tardo Autunno” possedeva una notevole caratteristica distintiva) è l’insistenza su quello che potrebbe essere definito: “il rituale del Sakè (la bevanda alcolica sacra del dopolavoro giapponese)”.

I protagonisti di questo cenacolo ricorrente, vero leit-motiv dei film di Ozu, sono rigorosamente maschi adulti. Le donne vivono un mondo a parte, serve remissive dei voleri dei mariti. Così qui accade per la giovane Michiko, figlia di uno dei tanti dirigenti d’azienda della Tokyo industriale. Per volontà paterna e ,forse, per autodeterminazione personale sarà costretta a sposarsi, rendendosi così indipendente dall’abitazione che l’aveva vista crescere. Ma il tema della separazione, come detto, qui si accompagna ad una vena marcatamente nostalgica; è d’altro canto l’ultimo film e si presenta quindi come il commiato finale del regista giapponese dalla carriera cinematografica e dalla vita. Morirà infatti l’anno successivo nel 1963.

Lo sciopero della parola condotto dai due giovani protagonisti di “Buongiorno” ha invece tutt’altra suggestione. Convinti, nella loro protesta, di ottenere con il silenzio l’assenso dei propri genitori, Minoru e Isamu Hayashi conducono una vera e propria battaglia indipendentista in nome dei nuovi mezzi d’intrattenimento: la Televisione e i canali dedicati al Sumo. Velato da un’ironia sottile e sorniona il film scorre piacevole agli occhi dello spettatore, sempre sottoposto ad un’analisi equilibrata dei rapporti mutati nella società raffigurata.

Interessante il micro-contesto sociale in cui è calata la trama: poche abitazioni dove i vicini di casa sanno tutto di tutti. Una giovane coppia che inizialmente invita in casa i bambini del piccolo quartiere (tra cui anche Minoru e Isamu) per permettergli di guardare il Sumo in TV, sarà, per questa ragione, costretta a traslocare.

Il clima asfittico delle famiglie produttive giapponesi è così criticamente messo in relazione con chi ha deciso di accogliere le nuove tecnologie e gli slogan americani senza farsi troppe domande. Sul finale il fratellino minore con una battuta da bozzetto (mima il gesto di sparare al padre), realizza l’intento del film, testamento autentico della fine di un mondo, quello della passata generazione reduce dello shock post-seconda guerra mondiale.

Film d’arte, lunghi piani-sequenza, personaggi che si muovono a rallentatore su trame dove apparentemente non sembra accadere nulla. Ozu passa dal cinema muto, al sonoro degli anni quaranta, per giungere al colore della decade successiva (in cui escono i suoi maggiori capolavori: “Viaggio a Tokyo” e “Tardo Autunno”) seguendo un percorso che sembra non subire scossoni o battute d’arresto. Ozu è un maestro del cinema e come rivela l’ormai celebre adagio di Wim Wenders: “La cosa più simile al paradiso che abbia mai incontrato è il cinema di Ozu”.

Ancora immerso in quel mondo estraneo e lontano torno a casa riflettendo. Il sorriso si compone sulle mie labbra e riappaiono i flash di quegli interni così particolarmente catturati dalla cinepresa, l’inusuale accentazione della parlata giapponese. Strano, penso, come mai la mia città per ben due anni di seguito ha riproposto una rassegna pressoché identica su Yasujiro Ozu? Sarà l’alienazione estiva, la moda dilagante dell’estetica giapponese, l’amore per il vero cinema di un tempo ormai tramontato? Sicuramente la scelta si sposa bene in parallelo alla programmazione del cinema all’aperto di Palazzo Reale, selezionandone volontariamente il pubblico.
Tuttavia mi chiedo, perché non presentare, sempre nell’ottica di un restauro di cinema d’autore giapponese, l’opera di uno dei tanti altri grandi autori nipponici? Forse Torino, nel suo equilibrio strutturale ricorda molto le geometrie filmiche di Ozu… ma queste probabilmente sono soltanto le mie divertite supposizioni.