The Avalanches: autarchia sonora globalizzata

Una pietra miliare degli Anni Novanta, sedici anni di silenzio e un ritorno che dietro alla patina vintage sembra cogliere nuovamente lo zeitgeist contemporaneo: come suona il nuovo disco Wildflower e com’è essere gli Avalanches a quarant’anni?

di Luca Morazzini  –  Quando sei un fantasma in un’era che non ti appartiene o in cui per lo meno non hai lasciato traccia, se non uno sbiadito ricordo che forse è legato più ad un certo modo di vedere gli Anni Novanta, ti senti un po’ come il protagonista di un’opera che passa tutto il tempo a cercare di capire se stesso, cosa fare della sua vita, perché è arrivato ai 40.

Ecco in sintesi gli Avalanches sono entrati nei 40, età difficile i 40 dicono, però infondo se uno è un genio lo è anche invecchiando, magari si affina un po’ mette su famiglia e questo lo porta a cambiare paradigma, ma in sostanza non ti re-inventi mai seriamente. Di solito si peggiora in realtà. Sono un po’ di anni che sono passati troppi anni da quando si poteva credere seriamente che magari un giorno chissà gli Avalanches sarebbero usciti con un nuovo disco, sempre per quella storia degli anni 90 certo ma anche perché Since I Left You è stato un monolite musicale posizionato talmente bene che per anni ha continuato ad avvalorare la sua eco.

Però 16 anni non sono uno scherzo, sono 4 anni in più di quelli che ci sono voluti per girare il film Boyhood, e sono 16 in più del tempo che Ty Segall impiega per fare un disco, quindi insomma tantissimi anni che hanno contribuito ad aumentare il mito, la legacy volendo, fino a che uno non ha iniziato a dimenticare e lasciar perdere, non torneranno mai.  Sono tornati, certo come no, invece si sono tornati, anzi in realtà erano 16 anni che lo stavano facendo, a piccoli passi certo ma Wildflower è arrivato nei negozi di dischi, aspettate dategli tempo sono tornati veramente.

Ovviamente siccome i fantasmi non esistono tutti hanno iniziato a chiedersi cosa fosse successo in questa “piccola” parentesi, perché gli Avalanches ci avessero messo così tanto, le risposte sono arrivate nella maniera preferita da chi infondo qualcosa da farsi perdonare ce l’ha, ovvero aneddoticamente.

Cosa hanno fatto gli Avalanches tutti questi anni? Sono andati a letto presto, mi verrebbe da dire, ma la stasi dell’opera è riconducibile principalmente a battaglie legali sull’uso dei samples, alla metodicità logorante del loro processo produttivo, mancanza di fondi – dovuta anche al loro progetto su un musical stile Yellow submarine Hip- hop mai terminato –  e anche a qualche problema di salute che ha tenuto Robbie Chater fuori dai giochi per un po’.

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La prima grande novità di questo secondo disco è sicuramente l’apporto esterno di cui gli Avalanches si sono serviti, per esempio – oltre alla già risaputa collaborazione di Danny Brown – ci sono Toro y Moi, nella splendida “If i was a folkstar”, Jonathan Donahue e perfino il pianista francese Jean-Michelle Bernard, in più hanno dovuto chiedere i diritti di Come Togheter dei Beatles per la canzone Noisy Eater direttamente a Yoko Ono con una lettera.

Chater ha raccontato che il rapporto con Brown è nato veramente in poco tempo, non conosceva gli Avalanches ma il suo manager si, c’è voluto poco prima che accettasse di buon gusto. Le sessioni con Brown sono durate 48 ore consecutive e alla fine ne è uscito “Frankie Sinatra” e “The Wozzard of Iz”, piccoli frammenti rispetto a tutto il materiale registrato. Per quanto riguarda invece la vicenda Yoko Ono Chater ha ammesso che inizialmente non ottennero i permessi e che alla fine tramite catene di amici riuscì a recapitare la lettera, alla fine la risposta fu positiva mentre McCartney aveva già dato l’ok.

Altra differenza con il precedente disco è che Wildflower ha uno zeitgeist polimorfo, ha in sostanza un background che va dai Beach Boys e arriva sino ai Tribe Called Quest. L’avvicendamento di psichedelia e hip hop ricorda molto i film di Larry Clark stilisticamente parlando, c’è anche l’aura di Kevin Smith in supervisione e c’è Lou Barlow che partecipa.

“La discografia degli Avalanches conta due dischi ma passa per 50 anni della storia della musica e della cultura pop in generale, come le strisce serali della domenica su Rai 2 quelle che mettono insieme i varietà di Renzo Arbore e le performance di Walter Chiari”

Alcuni hanno visto nella “nostalgia” una possibile chiave di lettura del disco sostenendo anche che probabilmente tutti questi anni di gestazione abbiano prodotto un trattato di “escapism-djing” o qualunque cosa volessero dire. Wildflower è un surrogato di anti-nostalgia in realtà, è proprio questa la sua natura e probabilmente la sua forza, ha una profonda rete di rimandi culturali che lascia l’ascoltatore libero di scegliere a quale spaccato aggrapparsi. Non si tratta di smarrimento o quant’altro è più una libera interpretazione di ciò che alla fine la musica degli Avalanches incarna. E’ un po’ come un’autarchia sonora che però è dannatamente globalizzata.

Quindi siccome le influenze sono tante e gli stati d’animo vanno di conseguenza in contemporanea con l’uscita del disco il gruppo ha rilasciato un mash-up video (guardalo qui) accompagnato dalle tracce di Wildflower in cui l’ LP prende vita e innesca una polimerizzazione della durata di 13 minuti circa. Poi viene fuori che ci sono Larry Clark e Kevin Smith veramente ed è quindi un gran deja vu, probabilmente è per questo che si può parlare di anti – storicità del disco. E’ l’effetto plaunderphonics e in generale delle arti di collage come il found footage, ovvero delle vaste aree in cui la contemporaneità si dilata abbastanza da diventare un dettaglio impercettibile.

E’ anche il motivo per cui la discografia degli Avalanches conta due dischi ma passa per 50 anni della storia della musica e della cultura pop in generale, come le strisce serali della domenica su Rai 2 quelle che mettono insieme i varietà di Renzo Arbore e le performance di Walter Chiari o più semplicemente Blob. Il risultato di tutto questo è come un grande effetto Sgt Peppers, ci sono tanti personaggi tanti quanto quelli di un romanzo russo e sono tutti degli ingranaggi fondamentali per fare da ponte per il blocco successivo, c’è l’empatia che fa da coadiuvante quella deve esserci. Poi dopo tanti anni vorresti dire a Robbie Chater “I heard that you said you’d like to put something else out in the next three years”. E magari risponderebbe “Oh, really? That wasn’t very smart of me to say”, o forse è già successo.