[INTERVISTA] Afrika Bambaataa: “L’hip hop è cultura, non guadagni facili”

Al cospetto di una vera e propria leggenda dell’hip hop.

di Lorenzo Li Veli  –  Tardi anni 70, la situazione delle periferie newyorchesi – in particolare del South Bronx – non è delle migliori. Violenze, miseria e povertà sono all’ordine del giorno. E’ in questo contesto degradato che un corpulento dj decide di dare un’occasione di svago ai giovani del suo quartiere: un sound system enorme, un drink, la voglia di ballare e di dimenticare tutti i problemi ed ecco che la festa ha inizio. Pochi sanno che stanno vedendo nascere una nuova cultura rivoluzionaria, destinata a diventare punto di riferimento per i giovani di tutto il mondo. Quel dj si chiama Afrika Bambaataa e a distanza di venticinque anni continua a calcare i palchi per diffondere gli insegnamenti di questo movimento. L’abbiamo incontrato in occasione della sua data che si terrà a Torino il 16 maggio all’Hiroshima Mon Amour (evento organizzato da Freak Boutique e El Barrio). Ecco cosa ci ha regalato.

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L’hip hop negli anni ’70 nacque anche per ragioni sociali. Pensi che il significato dell’hip hop sia rimasto lo stesso nel corso del tempo?

“L’hip hop non è certamente rimasto lo stesso in questi anni. Solo gli artisti che gli hanno dato un’accezione positiva l’hanno mantenuto tale. Penso a gente come i Public Enemy, Afrika Bambaataa, i Poor Righteous Teachers. Altri invece l’hanno interpretato come un genere dedicato solo al party, senza nessun messaggio profondo per la comunità. Quindi bisogna distinguere tra l’hip hop “suonato” per la gente e quello “fatto” per la gente”.

L’hip hop ultimamente è sempre più confuso con il rap. La gente tende a dimenticare le altre tre discipline (djing, writing e breakdancing). Perché?

“La ragione è semplice: la gente continua a dimenticarsi del quinto elemento: la conoscenza, la knowledge. Non si può fare nulla senza knowledge, anzi, direi che può essere considerato benissimo il primo elemento di questa cultura. I b-boys, i djs, gli MCs, i writers si sono riuniti grazie alla knowledge. Senza questa non esisterebbe l’hip hop, non si saprebbe come spruzzare la vernice, come trattenere il respiro per cantare nel microfono senza strozzarsi. Bisogna quindi studiare questa cultura fin dai principi base”.

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In Italia negli ultimi due anni si è sviluppata una situazione particolare. La scena si sta dividendo in due tronconi, una che considera l’hip hop una cultura da preservare a qualsiasi costo (prevalentemente artisti che vivono questa cultura dagli ‘80/’90), e una che la vede più come una forma di guadagno. Qual è il tuo pensiero su questi accadimenti?

“E’ facile operare il distinguo tra chi vuole mantenersi fedele alla cultura e chi invece vuole rimanere fedele al rap o al guadagno facile. E il motivo è uno solo: il denaro. Quando hai come unico obiettivo i soldi, diventi come Lucifero, una marionetta che si vende per poco e chiunque può comprarti. Se invece mantieni e conservi la tua arte, rimani fedele all’amore della forza suprema per creare, preservando ciò che è naturale”.

Se tu dovessi scegliere un erede, chi sarebbe?

L’erede è chiunque all’interno di questa comunità che si erga come paladino per la preservazione dell’hip hop come cultura e movimento.

Cosa significa la Universal Zulu Nation nel 2014?

“L’Universal Zulu Nation è stata, è ora e sempre sarà negli anni a venire una roccaforte per chi agisce e pensa nel mondo, non solo per gli spettatori passivi che non fanno altro che lamentarsi senza trovare una soluzione ai problemi. Bisogna alzarsi e lottare per l’hip hop come cultura e con il fine di porre fine a tutti i problemi dell’umanità, con un ruolo attivo. Non ha senso essere solo spettatori”.

L’hip hop ha attraversato diverse fasi nella sua storia: g-funk, hardcore, il crunk, la trap odierna e molte altre. Quale senti più tua?

“Chiaramente la parte in cui l’elettrofunk si stava diffondendo in tutto il mondo, quando la gente aveva voglia solo di divertirsi, senza cercare di uccidersi. Ti divertivi, con la breakdance, con i graffiti, con il freestyle. Semplici attività fatte col cuore, che permettevano al mondo di capire cosa fosse questa cultura nuova chiamata hip hop”.

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Qual è la tua opinione sull’odierna scena hip hop?

“La scena hip hop odierna è confusa. C’è chi vuole rimanere fedele alla cultura hip hop originaria con tutto l’amore necessario e chi vuole semplicemente dedicarsi al rap con lo scopo di guadagni facili”.

Ultima domanda, questa volta politica. Obama è stato il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti e ha usato durante molti suoi comizi alcune canzoni rap. Qual è il tuo pensiero sul suo operato?

“Dire che Obama sia stato il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti è una forzatura. Ci sono prove che ci siano stati presidenti di origine africana persino prima di George Washington, quindi prima che gli Stati Uniti come li conosciamo oggi si formassero. Ci sono molti libri a riguardo. Obama sta facendo quello che deve, pulire tutta la sporcizia che altri presidenti prima di lui hanno lasciato. E lo stesso dovranno fare anche altri presidenti futuri. E’ sempre la stessa vecchia storia che accompagna qualsiasi presidente mondiale, non solo quello degli States. Ma chi lavorerà veramente per la gente?”.

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