Le crepe nell’armatura di Dark Souls 3

L’ultimo capitolo della celeberrima saga aspira a toglierci il fiato: il risultato è un gioco capace di stupire, ma spesso non per i motivi che avevamo immaginato.

Considerare la serie di giochi cosiddetti Soulsborne (termine con il quale il web ha cominciato autonomamente ad indicare i cinque titoli con struttura e caratteristiche simili prodotti dalla From Software, tutti eccetto uno supervisionati da Hidetaka Myizaki) come delle sfide masochistiche ai riflessi e nervi del crescente pubblico di appassionati è un errore madornale da parte del pubblico ed un peccato tutt’altro che veniale commesso da una buona fetta dei cosiddetti esperti (giornalisti o recensori spesso improvvisati).

Un errore che, a dirla tutta, è stato ridimensionato nel tempo, soprattutto grazie all’involontario lavoro rivelatore di un titolo come Dark Souls 2, che, con i suoi difetti, ha mostrato i limiti di questa visione “quantitativa” e profondamente arida, e anche un po’ reazionaria ed elitaria, quella del “get gud” o più italianamente del “molti nemici, molto onore”. L’idea, radicalmente fallace, che l’obiettivo del gioco sia frapporre ostacoli sempre più invalicabili che privino il giocatore inesperto e immeritevole dall’accesso al finale del gioco è stata sempre rinnegata dall’ideatore Myizaki che, al contrario, rivendica l’uso strumentale della costante minaccia di fallimento, rappresentata da ogni mostro e trappola, per favorire l’immersione del giocatore nell’universo impietoso e mortifero da lui immaginato.

Dark Souls 2, prodotto elaborato in parallelo a Bloodborne, non ha visto la partecipazione di Hidetaka Myizaki, se non come supervisore nella prima fase (i direttori sono invece Shibuya Tomohiro  e soprattutto Tanimura Yui, il cui apporto al titolo è emerso come il più significativo tramite interviste e fonti interne). Il risultato? Un parziale passo indietro – rispetto al predecessore Dark Souls, o, per lo meno, un passo laterale, che ha visto una chiara predilezione per certi aspetti competitivi del franchise a discapito di atmosfere e profondità del level design, ma anche un maggiore impegno nello sviluppo delle meccaniche di gioco e nel bilanciamento della – sempre più attiva e importante – componente player versus player del gioco.

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Per Dark Souls 3, il canto del cigno della serie, Myizaki torna finalmente in sella, con il pieno appoggio dei suoi fan e della sua casa di produzione (la From Software della quale è divenuto presidente proprio a seguito del successo della serie Souls) per dare la chiusura ideale ad una trilogia che ha costituito unpinnacolo di maturità nel mondo videoludico ed un potenziale passo in avanti verso una maggiore consapevolezza di giocatori, specialisti e produttori sulle potenzialità del mezzo.

Dopo più di cento ore passate sulla versione PC del titolo ho esplorato ogni aspetto del gioco – completato in ogni modo la storia principale e le varie storie opzionali legate ai personaggi, oltre ad aver passato molte ore a confrontarmi nel pvp con duelli ed invasioni – e posso quindi finalmente esprimermi con cognizione di causa sulla questione fondamentale: è Dark Souls 3 il capolavoro che ci si aspettava?

E’ doloroso ma inevitabile ammettere che la risposta è negativa, ed ecco alcuni motivi.

Dark Souls 3 non riesce a replicare l’impresa del suo primo antenato di creare un mondo uniforme e quindi una esperienza totalmente immersiva; non è un capolavoro, è “solo” un gioco eccellente.

Certo, le atmosfere sinistre e minacciose, a contrastare con momenti di grande respiro e meraviglia, sulle quali tanto – forse, ancora di più – giocava a farci penare e godere il primo Dark Souls, ci sono. La maggior parte delle numerose aree che dovremo esplorare in DS3 godono di un design e di una cura concettuale che sono forse il fiore all’occhiello del titolo, il suo biglietto da visita: quello che ha fatto godere più di tutto i fan della serie fin dalle immagini in anteprima ai vari showroom di electronic gaming. Purtroppo però, dietro all’ispiratissimo lavoro di bozzetti e disegni che ci regala splendide e sinistre architetture – come anche mostri, armi ed armature – che compongono il regno di Lothric, si nasconde una evidente fretta nell’assemblaggio di queste strutture.

Il gioco pecca di eccessiva linearità fin dal principio, costringendoci su un sentiero per lo più già prestabilito, nel quale siamo sì liberi come sempre di esplorare ogni area e scoprirne le ricchezze – segreti, trappole e tesori nascosti non mancano – ma sempre all’interno di recinti chiusi che si susseguono talvolta con escursioni tematiche ed atmosferiche sforzate e non eleganti.

La libertà di movimento del giocatore è limitata a pochi bivi che il più delle volte ci permettono semplicemente di scegliere quale area esplorare per prima, per poi tornare sui propri passi ed esplorare la seconda, e solo così proseguire nel nostro “tunnel”. Esistono ampie aree segrete, che come sempre saranno le più punitive e intense e costituiranno un premio per gli esploratori più infaticabili: tuttavia queste sono limitate nel numero e sembrano godere di minore attenzione nella loro struttura rispetto ad alcune aree principali, specialmente le più vaste ed impressionanti, sul cui impatto stordente il gioco sembra puntare molto.

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Molte delle aree principali sono in effetti impressionanti, non solo per l’impatto visivo, ma anche nel puro level design, nella sua circolarità e verticalità ammirevoli.

Ci troveremo a ripercorrere i nostri passi ma su diversi livelli e ad aprire nuovi percorsi modificando il layout del mondo e lasciando quindi una traccia del nostro passaggio che, seppur minima, è già una soddisfazione in una saga di ineluttabilità come quella narrata dal gioco. Queste aree sono uno dei volti migliori del titolo, dimostrazione di uno sviluppo in positivo del lavoro che in piccolo era già evidente nel primo Dark Souls, specialmente in una zona assai particolare come il Mondo Dipinto (Painted world of Ariamis). Ma in altre istanze il gioco ci mostra anche il suo volto più raffazzonato e incompleto, con aree assai meno elaborate, claustrofobiche o troppo linearmente espanse in orizzontale.

D’altronde il sospetto di stare per infilarsi in un lunghissimo tunnel è presente fin dal principio, quando diventa chiaro che il fast travel (lo spostamento rapido) tra i falò del mondo è libero (elemento che caratterizzava negativamente già DS2), anzi, addirittura obbligatorio. Si va così a rimuovere uno degli elementi (quello dello spostamento a piedi fra le varie aree) che non solo erano in grado di accrescere il fascino e l’immersione del mondo, ma ne sottolineava la complessità e bellezza strutturale, e oltretutto ci permetteva, nel nostro vagare, di scoprirne casualmente i segreti: come, ad esempio, ritrovare un personaggio (npc) in un’area differente da quella in cui lo credevamo stanziato, e proseguire quindi con naturalezza lo svolgersi della sua personale vicenda.

Ecco, anche sul piano dei personaggi secondari e delle loro storie totalmente opzionali il passo indietro ci pare evidente, e non solo per quanto riguarda la complessità delle stesse, ma prima di tutto, per una maggiore percezione di staticità e indifferenza agli eventi degli npc (dialoghi ripetitivi, personaggi per lo più statici che spesso non svolgono altra funzione che quella di rivenditori di incantesimi o oggetti), cosa che già piagava il secondo Dark Souls ma che, paradossalmente, era risolta con più efficienza nel primo.

E’ giunto poi il momento di segnalare un elemento fortemente presente in questo titolo e sul quale a lungo si può dibattere sui pro ed i contro: il “fan service”, nella forma di continui rimandi e strizzatine d’occhio ai titoli Souls precedenti, la fa in Dark Souls 3 da padrone. Talvolta è apprezzabile nella sua sottigliezza, ma i momenti di più plateale riferimento e auto-omaggio gettano un’ombra oscura che fa passare in secondo piano anche le istanze più riuscite.

Avendo giocato estensivamente i titoli precedenti, la sensazione è passata rapidamente da una lieta nostalgia alla schockante osservazione di una ecatombe della novità in favore dell’omaggio, che poi è, in fondo, il già visto, il già esperito, il già immagazzinato nell’immaginario collettivo. La situazione risulterebbe meno asfissiante se questi riferimenti non togliessero infatti spazio alle novità: se le due componenti insomma si bilanciassero e amalgamassero armoniosamente. E’ stato scoraggiante invece osservare come virtualmente tutte le quest-line complesse fossero legate a personaggi che già avevamo incontrato in una forma o nell’altra – il gentile e tragico cavaliere d’elite piuttosto che lo sbadato ma coraggioso cavaliere cipolla, e ovviamente l’infido razziatore di cadaveri a metterci infruttuosamente i bastoni tra le ruote.

L’ossessione per l’autoreferenzialismo non intacca perlomeno i combattimenti con i boss, nei quali sono state concentrati probabilmente buona parte degli sforzi del team produttivo.

Quello dei boss è un elemento estremamente delicato all’interno dell’economia di gioco in un prodotto Soulsborne: se da un lato sono evidenti e lodevoli i tentativi di evitare la ripetitività delle meccaniche degli incontri e dello stess design dei boss, d’altro canto non si può prescindere da un sistema di combattimento limitato – per quanto esso sia stato approfondito in questo titolo. La cura per questo fragile equilibrio ci regala momenti altissimi, probabilmente i più alti all’interno dei tre titoli Dark Souls (merito anche dell’esperienza Bloodborne che ha reso possibile l’approccio più frenetico al combattimento del terzo capitolo rispetto ai precedenti). Su questo aspetto il passo avanti è innegabile, per quanto rimangano oscillazioni percettibili tra i boss ai quali gli sviluppatori si sono approcciati pensandoli come puri test di riflessi e conoscenza delle meccaniche ed altri che vorrebbero stimolare il giocatore ad osservare l’ambiente e immaginare strategie alternative a quella frontale, dove questi ultimi possono rapidamente perdere di freschezza e intensità nel momento in cui si viene a risolvere qualche piccolo rompicapo che va sostanzialmente a concludere il combattimento.
L’auspicio, come sempre, sarebbe stato che i due elementi – quello puramente strategico e quello di “skill” o capacità tecniche del giocatore – convivessero in armonia totale: una situazione ideale che, comunque, non era mai giunta così vicina alla realizzazione come in questo titolo.

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Berserk, la serie manga ideata alla fine degli anni ottanta da Miura Kentaro, rimane la principale fonte di ispirazione per i giochi della serie Soulsborne, grazie alla sua estetica macabra che dalla cultura nipponica guarda alla letteratura gotica medievale europea.

Altro impasse che i titoli precedenti non avevano saputo risolvere riguarda il ruolo delle covenant (o patti), ovvero delle fazioni che ci permettono, grazie all’allineamento ad una determinata condotta morale trasportabile poi all’interno delle meccaniche di gioco, di rendere varia e godibile l’esperienza online. Che si voglia invadere con intenzioni maligne un altro giocatore o piuttosto venire in suo soccorso, o che si voglia difendere una determinata area dei profanatori, o cooperare alla sconfitta di un boss, per ogni situazione c’è il patto corrispondente. Due sono sempre state le problematiche principali con questo elemento: la maniera insoddisfacente di integrare questi patti alla trama di gioco e la tendenza della comunità di giocatori a concentrarsi su uno o due pattil’appartenenza ai quali è percepita come più gratificante, disertando altri patti considerati meno attivi (e di conseguenza innescando una reazione alla catch-22 da cui è difficile uscire).

Sulla prima questione il passo avanti è timido ma percepibile, e seppur le covenant rimangano degli elementi tutt’altro che centrali allo svolgimento della storia, è evidente come sia stato fatto uno sforzo per intrecciare in modo più convincente queste componenti che aprono una finestra sulla interazione con il reale (la comunità online, il pvp e coop) al tessuto dell’universo fittizio del gioco; ad esempio, legando l’interazione che avremo con alcuni personaggi alla nostra fedeltà o meno ad un determinato patto – interazione che potrà variare dall’aperta ostilità alla cooperazione nella disfatta del boss di turno a seconda della nostra covenant di appartenenza.

Il tentativo di risolvere, invece, la seconda questione, riguarda proprio l’innovazione dei talismani dei patti introdotta solo con Dark Souls 3, oggetti che ci permettono di cambiare rapidamente il patto di appartenenza risparmiandoci difficoltosi viaggi e rituali che i titoli precedenti spesso pretendevano. Così facendo si è tolto per lo meno uno degli ostacoli che spingevano la settarietà dei primi giochi, che aveva decretato la desertificazione di alcuni patti e delle loro aree virtuali di competenza.

Ci sembra tuttavia che lo sforzo non sia stato sufficiente, e a solo un mese di distanza dal rilascio della versione PC del gioco, la distribuzione della community sembra stare seguendo un percorso simile al passato, anche se in maniera lievemente meno marcata; la concentrazione di giocatori non sembra essere stata particolarmente deviata da questo incentivo alla flessibilità, e forse un sistema di premi più complesso e gratificante avrebbe spinto ad una maggiore diversificazione la community.

Infine vanno segnalate alcune problematiche più prettamente tecniche, che con più evidenza delle altre segnalano il peccato principale dei developers nello sviluppo del gioco – la fretta.

Dark Souls 3 è, tecnicamente, tutt’altro che brutto. Nel complesso è anzi sicuramente il titolo più raffinato prodotto dalla From Software e, più generalmente, fra i più impressionanti dei giochi di ultima generazione. In mezzo a questa meraviglia sensoriale (debitrice di un lavoro, come sempre ispiratissimo, di art design) si trovano tuttavia alcuni dei difetti che i veterani della serie già ben conoscono (cali di fps, poligoni non sempre curati, elementi dello sfondo che emergono in ritardo, hitbox dei colpi non perfetta, così come l’AI dei nemici, muri solidi che vengono attraversati incomprensibilmente da certi attacchi, occasionali crash) anche se in misura ridotta e che sicuramentedestinata ancora a ridursi con il susseguirsi delle patch.

Altri difetti sono invece novità molto più inspiegabili e che hanno generato un certo clamore all’interno della comunità di giocatori. Ci riferiamo principalmente alla funzionalità poise (in italiano equilibrio), che tradizionalmente indicava la capacità del personaggio di sopportare i colpi degli avversari senza rimanere stordito ed inerme (determinata da un numero legato al tipo di armatura indossata); questa funzionalità rimane presente all’interno del gioco ma senza effetti percepibili, ed in breve tempo è stato individuato un blocco esplicitamente inserito nei codici che sembra inibirne totalmente l’efficacia. Si tratta di una scelta che ha ovviamente grosse ricadute sull’effettivo gameplay, andando a favorire un certo tipo di approccio al combattimento (quello di armature leggere ed agili combinate ad armi potenti) e sfavorendone un altro (quello dei cosiddetti “tank”, personaggi costruiti appositamente per sopportare i colpi avversari e punirli con i propri). Ci sono poi altre questioni, sempre relative al bilanciamento delle armi, che sono state rapidamente notate e segnalate (spesso attraverso una sana ridicolizzazione) dall’attenta e appassionata comunità pvp.

Il peccato originale di Dark Souls 3 è la sua frammentarietà, frutto di un processo di sviluppo a sua volta frammentario e frenetico.

ICO (2001) e Shadow of the Colossus(2005) di Ueta Fumido, con la loro predilezione per le atmosfere a discapito dell’azione frenetica, così come i platform orientati all’esplorazione della serieCastlevania sono “antenati eccellenti” ai titoli Soulsborne.

 L’edizione pc del primo Dark Souls è stata rilasciata ad agosto 2012: poi inizia immediatamente il processo di sviluppo di Bloodborne e, parallelamente, quello di Dark Souls 2, titoli che entrambi impegnano (in diversa misura, come abbiamo già visto, dato che nel secondo si tratta solo di supervisione) il genio creativo di Myizaki. Dark Souls 3 comincia ad essere sviluppato prima ancora dell’uscita di Dark Souls 2, posizionandosi quindi parallelamente al completamento di Bloodborne. Un tour de force produttivo non indifferente, la risposta inevitabile all’improvviso successo planetario della serie: un successo strettamente legato al personale apporto di Myizaki (che è così entrato a far parte della ristretta cerchia di sviluppatori-autori con una voce riconoscibile ed apprezzata) che, come già abbiamo visto, lo ha portato al ruolo di Presidente della propria casa di produzione.

Ma quando i tempi produttivi si fanno così frenetici (con l’uscita di un gioco completo all’anno e numerosissime espansioni dal 2014) questa voce così caratteristica ed amata si è inevitabilmente affievolita, divisa tra i mille impegni e provata dal lavoro costante, necessario per mantenere alto il livello qualitativo dei prodotti. I crescenti mezzi economici, i comparti tecnici e di manovalanza sempre più ampi, tutto ciò non può sostituire il lavoro creativo – quella voce unica e pertanto riconoscibile che viene a indebolirsi.

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Un eccellente lavoro di rifinitura non può sostituire la pura emozione che solo una visione ispirata e totale può creare.

Quella visione che donava a Dark Souls un’anima propria nasceva da una ambizione estrema che aveva saputo accomodarsi e contrattare i propri spazi con le limitazioni tecniche del momento, ma rimaneva lì, evidente, in un mondo complesso che si apriva in ogni direzione, esplorabile per buona parte liberamente e sin da subito, senza barriere e nemmeno troppe indicazioni. Dall’oasi di Firelink Shrine potevamo osservare aree distanti e sinistre, provare ad avvicinarci ad esse solo per scoprire sulla nostra pelle di non essere ancora pronti. Attorno al nostro fuoco si radunava un gruppo di avventurieri come noi impegnati nella propria personale crociata, ognuno con personalità distinta e complessa, e senza la fastidiosa sensazione che questi fossero lì al servizio del giocatore: alcuni potevano scomparire e tornare dalla loro postazione, altri ingannarci, altri addirittura rivelare le proprie intenzioni omicide nei confronti del nostro personaggio o dei suoi comprimari.

Dark Souls 3 nasce al contrario come opera di mediazione immediata fra le possibilità produttive ed il desiderio dei consumatori, che nel frattempo si sono moltiplicati enormemente ed hanno una voce sempre più rumorosa che non sempre è consapevole di ciò che chiede. All’altare della produttività l’ambizione innocente e folle è stata sacrificata: in cambio, otteniamo un gioco che punta (e sfiora) il massimo risultato tecnico, ma continua nella sostanza a vivere della luce riflessa del suo antenato. L’esperienza Soulsborne sembra (dalle dichiarazioni dello stesso Myizaki) un glorioso capitolo che volge alla chiusura, una scelta saggia e dignitosa. Speriamo che la From Software sappia capitalizzare sulla esposizione nata da questa esperienza e non continui ad affrettare i tempi produttivi castrando la creatività dei propri reparti produttivi: solo così Myizaki sensei potrà tornare a farci godere (e soffrire) nei mondi da lui immaginati.

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