Nymph()maniac, il sesso come ricerca di senso

Nymphomaniac. Nym-pho-ma-ni-ac. L’inizio ricorda proprio l’incipit della Lolita di Nabokov. Non a caso, se si cerca sul vocabolario la voce “lolita”, troviamo il sinonimo di “ninfetta”, o “ragazza precocemente sviluppata dal punto di vista sessuale”. E noi l’abbiamo vista la lolita di Lars von Trier nella versione censurata del suo filmone di quattro ore circa, l’ultimo scavo archeologico nei meandri della psiche umana, dopo Antichrist e Melancholia, i precedenti della trilogia. Avevamo bisogno diNymphomaniac. Il sesso violentemente vomitato a causa dei media è paradossalmente rimasto un tabù. Von Trier, come è solito fare, sviscera la natura primordiale, inquietante, misteriosa ma divinamente armonica. Il sesso come ricerca di senso.

Vol. 1
Mea vulva, mea maxima vulva

di Benedetta Spampinato – Sin dall’inizio, tutto trema. L’inquietante e naturalistico rumore di ruggine e pioggia pervade la scena in una quiete poi distrutta dal pezzo altamente sessuale dei Ramnstein, Führe Mich, che apre e chiude il primo volume del film. Lei, Joe (C. Gainsbourg) giace sanguinante per terra: una ninfa.
Ninfomane. Quando arriva a soccorrerla il suo prete-confessore-psicanalista Seligman (Stellan Skarsgård), comincia la romanzesca narrazione di Joe a partire dall’infanzia: i giochi nell’acqua a ritmo del Waltz No.2 di Dmitri Shostakovich e la corda tra le gambe. La “sensazione”. Von Trier è invasivo, mai voyeuristico. Joe racconta della scoperta della sua vagina attraverso i libri di anatomia del padre, medico, l’unica persona a cui abbia mai voluto bene.
La perdita della verginità e le sfide erotiche sul treno con l’amica B a suon di Born to Be Wild degliSteppenwolf sono l’inizio del tormento: il sesso dà l’avvio ad un gioco doloroso facile, ma privo di piacere. Joe piange mentre scopa, piange per il padre, per se stessa, per i suoi veri buchi. Espia il dolore, è un pesce che abbocca al primo che capita (il parallelismo uomo – animale ricorre costantemente) e con il suo viso scarno ricorda tanto la verghiana lupa. In realtà, apre le gambe per soffocare la verità (emblematico il discorso sul taglio delle unghie di Seligman). Che cosa ha perduto? La ninfomania diventa una legge, una religione, una ribellione contro l’amore. “Mea vulva, mea maxima vulva”, recita insieme alle sue compagne.
Seligman è un fanatico di musica classica, cita Bach e la teoria di Fibonacci collegandola alla perdita della verginità della protagonista. Dalla musica classica si passa alla perfezione di una polifonia di amanti (realizzato attraverso un tripartito split screen) che porterà a Jerome. La terza voce, l’ingrediente segreto, il cantus firmus.


Vol. 2
Lascia ch’io pianga

di Isabella Parodi – Joe continua a raccontare la sua storia, ma il secondo capitolo butta fuori con lentezza malsana tutta l’energia accumulata nelle due ore del precedente. E’ il vomito dopo la golosa abbuffata.
Joe ha trovato Jerome. Forse lo ama, forse no, sta di fatto che “non riesce a sentire più niente”. E’ come il Das Rheingold di Wagner: la discesa nel Nibelheim, tragico, terribile. La perfezione psico-fisica della polifonia sessuale tripartita si spegne e passa la torcia al progressivo declino della maxima vulva. Se prima la ninfomania andava capita e “vista” (purtroppo con sforbiciate di censura pesanti, a tratti maldestre) adesso si tratta di darle un significato. E’ peccato? E’ follia? E’ Joe che sbaglia o siamo noi altri esseri sessuali moderati a fuggire i nostri istinti e a mettere la testa sotto la sabbia?
Per Seligman, il vergine di ferro, siamo tutti degli ipocriti. Censuriamo e condanniamo l’atto più naturale del mondo e la sua iconografia perché impauriti dall’abisso senza controllo che la perdizione dei sensi esige. La società di von Trier è una massa di perbenisti conservatori, un po’ come quei puristi di Bach che non tolleravano la nuova versione de La Fuga di Beethoven. Seligman continua a citare musica classica, chiamando in causa questa volta Mozart, perfetto con Requiem Aeternam eRequiem in D minor, solenni, pacifiche, lontane. Come il risposo che Joe cerca ma non trova. Bellissima l’aria Lascia ch’io pianga (George Friedric Handel), compagna del contrasto intollerabile tra la purezza lasciata a se stessa (il bambino solo alla finestra) e la vuota violenza auto-inflitta (l’asettico sadomaso notturno). Il racconto fine a se stesso di Joe si trasforma in un dibattito sui massimi sistemi dal vago sentore “nietzschiano”, dove a confrontarsi sono il razionalismo apollineo (Seligman) e l’istintività dionisiaca (Joe), ma entrambi portano avanti le tesi dell’avversario, scatenando una lotta incrociata tra due estremi ugualmente insostenibili.
Von Trier si trova in tutti e due. Possiede i suoi personaggi come uno spirito per lasciarsi andare a provvidenziali invettive contro la morale bigotta, la violenza ecclesiastica, l’ottusità dell’uomo medio. Osa, se non scusare, almeno comprendere l’ambivalenza della repressione sessuale del pedofilo. Accosta il sadomasochismo alle passate atrocità di quella che chiama la “chiesa del dolore” (il Cattolicesimo). Spoglia e condanna ogni tabù verbale, perché “ogni volta che c’è una parola proibita, si toglie un mattone dal muro della democrazia”. Risponde con eleganza alle passate accuse di misoginia con uno dei film più femministi di sempre, rischiando contemporaneamente di compiacere il critico frigido con l’onnipresenza del nudo femminile, facilmente (e ingenuamente) fraintendibile. Un inno al potere della vulva che domina fino a esplodere in un finale perfetto, nel buio, dove avviene lo scontro finale tra i due spiriti.
Hey joe, where you goin’ with that gun of your hand… Charlotte Gainsbourg canta Jimi Hendrix. Perfetta.

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