Marley – Il film

di Isabella Parodi – Tempi fiorenti questi, per i bio-documentari. Sulla scia del successo di Scorsese con George Harrison (Living in The Material World), Davis Guggenheim con gli U2 e Cameron Crowe con i Pearl Jam, il regista scozzese Kevin MacDonald (forse vi ricorderete di lui per L’ultimo re di Scozia o per il documentario da oscar Un giorno a settembre) dopo quasi trentun anni dalla prematura scomparsa si getta a capofitto sulla vita di Bob Marley, il re del reggae, nelle sale di tutta Italia uno e un solo giorno.
Marley è un documentario più sull’uomo che sull’artista, che ci accompagna a scoprire la sua vita, dall’infanzia nelle baraccopoli di Trench Town in Giamaica fino alla sua fine a Miami nel 1981. In quasi due ore e mezza, MacDonald rievoca con intensità uno dei personaggi del secondo ‘900 che insieme a John Lennon si è più distinto come paladino di pace e fratellanza: guida spirituale, profeta politico e sociale di enorme impatto culturale (musicale e non) e fermo abbattitore di ogni sorta di barriera.
MacDonald ci racconta la storia con l’aiuto del “clan Marley”: parenti, amici ed ex colleghi, pronti a rievocarne il mito in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni. A cominciare dalla questione razzista che segnò così tanto la sua infanzia: nato da padre inglese e madre giamaicana, Marley si sentì sempre mezzo bianco e mezzo nero, qualcosa che per tutta la vita in qualche modo minò ad una sana costruzione della sua identità. Ben presto però l’adolescente Bob si rende conto che non sarà il sangue misto ma la musica a contraddistinguerlo. Grazie all’amicizia ispiratrice di Bunny Livingstone (a testimoniare in gran spolvero per il documentario) inizia a masticare di musica, ascolta ciò che arriva dagli Stati Uniti e nel ’63 fonda i The Teenagers (cambiato poi in The Waling Rude BoysThe Wailers e Bob Marley and The Wailers) insieme a Livingstone, Peter Tosh, Braithwaite, Kelso e Smith. Non era reggae, almeno all’inizio, ma ska, papà del reggae, ancora tutto da ballare e così ricco di infarcinature USA. Nessuno fuori dalla Giamaica conosceva le loro prime canzoni, ancora realizzate con strumenti musicali di fortuna (ricavati da cortecce d’albero e fili elettrici) e con la voce di Bob Marley ancora così imberbe .

MacDonald punta giustamente il mirino sulla conversione di Marley al Rastafarianesimo, con cui recupera le proprie origini africane e comprende la rivendicazione dell’orgoglio nero. Inizia l’inneggio all’Etiopia neo indipendente (nuova terra santa, secondo il credo rasta) e al novello Gesù Hailè Selassiè I, la cui dottrina cristiano-ortodossa, in realtà già viva da un trentennio, inizia a diffondersi in tutto il mondo grazie soprattutto alla propaganda musicale reggae, unica vera musica di Dio.

Money can’t buy life.
(Bob Marley)

Bob conosce il Rastafarianesimo nel ’66 grazie a Joe Higgs, musicista rastafari convinto, e subito ne fa la propria filosofia di vita divenendo il più influente rastaman del mondo. La cieca devozione verso Dio e il rifiuto di ogni altro “padrone”, fosse questo il razzista, l’oppressore, il dio denaro, o la società stessa; la vita finalizzata alla felicità (e non quella della costituzione americana…) di se stessi come degli altri, in nome dei valori imprescindibili di amore e fratellanza; la cura del corpo con sport e diete equilibrate; i dreadlocks, simbolo spirituale di integrità morale e fisica (“Conservate la vostra cultura, non abbiate paura dell’avvoltoio. Fatevi crescere i riccioli…”) e come dimenticare l’erba, veicolo mistico per l’illuminazione.
Entro un anno la cultura rasta ha la sua musica: per un errore in sala di registrazione viene fuori “l’arpeggio e mezzo” alla chitarra che ha reso inconfondibile il beat giamaicano. Nasce ufficialmente il reggae, musica spirituale non più solo da ballare, che col suo messaggio semplice quanto vero d’amore universale era in grado di arrivare al cuore di tutti. In essa si avverte un nuovo mix di funk, soul, rythm ‘n blues e un pizzico di jazz, come gli inventori stessi ci dicono nelle interviste.

Tra i diversi live del documentario, due spiccano: quello del ’78, organizzato da Marley stesso per porre fine alla lotta sanguinosa tra gli oppositori politici di Kingston (il cantante fece stringere la mano ai capi dei due partiti sul palco!); e quello dell’80, in celebrazione dell’indipendenza dello Zimbabwe.
Tanto attivismo, tanta musica. Una carriera musicale tra le più intense mai viste, destinata a spegnersi troppo velocemente divorata da un cancro incurabile. Marley canta fino all’ultimo, deciso a non arrendersi nemmeno a quel male imbattibile, mantenendo fede al proprio credo “Get up, Stand up” e dimostrando un’energia vitale che ha dell’incredibile. MacDonald indugia un po’ troppo sull’arenata della star del reggae col preciso intento di strapparci lacrime, ma dopo le lunghe riprese dei funerali ci congeda nei titoli di coda con una carrellata di video e immagini di fan in tutto il mondo uniti a cantare i suoi più grandi successi. Un epilogo eloquente che catalizza la nostra attenzione sulla straordinaria potenza del messaggio di Bob Marley al mondo, che nonostante passi il tempo continua a riecheggiare forte come quando era in vita.

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Marley unisce le mani dei due oppositori politici di Kingston sul palco

Bob Marley Performs On Stage

Bob Marley

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